Bozza del DDL sul sistema universitario: qualche commento by

29 Apr
2009

Mentre, da novembre, stiamo ancora aspettando un decreto attuativo per le “disposizioni urgenti per il diritto allo studio, la valorizzazione del merito e la qualità del sistema universitario e della ricerca” (senza il quale, vi ricordo, le suddette disposizioni urgenti non possono essere applicate in alcun modo) inizia a girare in rete una bozza del DDL sull’organizzazione del sistema universitario, sul reclutamento, sugli avanzamenti di carriera di professori e ricercatori ecc. (la trovate, ad esempio, qui).

Premetto che, non essendo un giurista, la lettura di una bozza di DDL mi risulta piuttosto ostica. Tuttavia si tratta di sole 17 paginette e quindi un po’ di considerazioni si possono fare senza una laurea in giurisprudenza.

Il Titolo 1 del DDL non mi sembra contenere nulla di realmente interessante se non un invito a chiudere tutti quei dipartimenti con meno di 30 strutturati.

Il Titolo 2 invece è più succoso e quindi è meglio analizzarne i punti più interessanti:

  • L’articolo 4 istituisce una “abilitazione scientifica nazionale”, ovvero una sorta di “lista” di nomi di persone che hanno passato un esame e che quindi possono essere chiamati a coprire i posti da ricercatore o professore in una qualche università. Francamente però non vedo alcuna significativa differenza col sistema attuale. Per chi non lo sapesse anche oggi vincere un concorso da ricercatore/professore NON vuol dire affattodiventare ricercatore/professore. Banalmente si entra in una lista e si aspetta che una qualche università chiami te invece che un altro nella stessa lista.
  • Lo stesso articolo 4 stabilisce che la commissione esaminatrice (8 membri +1) sia sorteggiata da un gruppo di 24 professori. Questo semberebbe essere un passo in avanti; oggi i membri delle commissioni vengono tutti eletti e quindi il rischio di pastette ed accordi sotto banco è elevatissimo. Dovendone eleggere 24 sapendo che gli 8 che andranno a far parte della commissione verranno sorteggiati a caso dovrebbe rendere più difficile (non impossibile, solo un filo più complesso) per i vari baroni mettersi d’accordo.
  • L’articolo 5 prevede che possano partecipare ai concorsi per ricercatore a tempo indeterminato solo coloro che abbiano conseguito un dottorato da non oltre 5 anni. Se l’obbligo di avere un dottorato per fare il ricercatore è un’ottima notizia (almeno si eviteranno casi surreali come figli di professori che diventano ricercatori pochi giorni dopo la laurea) il limite dei 5 anni lascia un po’ più perplessi. In un mondo ideale questo limite avrebbe senso: se in 5 anni di post-doc non sei riuscito a mettere insieme una produzione scientifica degna di un posto da ricercatore allora magari è bene che tu ti trovi un altro lavoro. Nel sistema Italia però il vero problema è che i concorsi sono praticamente sempre bloccati e/o già assegnati al raccomandato di turno. Quindi, fra quelli che non sono scappati all’estero, c’è un’ampia classe di gente brava che però è rimasta invischiata negli ingranaggi per ben più di 5 anni. Impedirgli di fare i concorsi vorrebbe dire tagliar fuori un’intera generazione e, francamente, una soluzione di questo tipo la vedo di difficile applicazione. È più probabile che il limite dei 5 anni verrà applicato solo a chi il dottorato non lo ha ancora finito al momento dell’entrata in vigore. Chi sta facendo, o si appresta a fare, un dottorato in Italia si consideri avvisato…
  • Sempre l’articolo 5 prevede che la prima posizione di contratto a tempo indeterminato (o di ruolo a tempo determinato, ovvero di ricercatore/professore non confermato) debba avvenire, per almeno 3 anni, in una università diversa da quella dove si è conseguito il dottorato. Questa è una norma che punta a prevenire la formazione di “dinastie” all’interno di una data università ed a spingere verso la mobilità. So che in Olanda è in vigore una norma simile e in molti paesi è abbastanza comune invitare la gente a cambiare sede. Questo avrebbe il vantaggio collaterale di esporre i novelli scienziati (o giuristi, o letterati, o quel che è) ad ambienti e stimoli diversi, rendendoli così dei ricercatori migliori. Personalmente resto un po’ dubbioso sull’obbligare per legge la gente a cambiare università; mi suona macchinoso, burocratico e facilmente manipolabile.
  • L’ultimo punto dell’articolo 5 prevede che le università private possano fare un po’ quello che gli pare riguardo il reclutamento di ricercatori e professori. In un regime di libera concorrenza fra le università questo andrebbe anche bene, il problema è che le cosiddette “università private” vengono lautamente finanziate dallo stato. Si avrà quindi una situazione dove i privati prenderanno soldi pubblici per spenderli come gli pare (e senza alcun controllo). Nulla di nuovo sotto il sole (qualcuno troverà notevoli somiglianze con le scuole private e con la gestione dei prof di religione) ma fa un po’ tristezza vederlo ribadito senza pudore in una legge.
  • L’articolo 11 (e qui siamo già al Titolo 4) stabilisce che professori e ricercatori debbano essere valutati ogni 2 anni sulla loro attività didattica e scientifica. Uno potrebbe anche pensare “finalmente!” ma, leggendo l’articolo, l’euforia svanisce presto. Infatti professori e ricercatori sono tenuti a presentare un’autocertificazione dell’attività svolta che verrà valutata dalle singole università ciascuna secondo modalità decise in proprio. Nel caso che qualcuno presenti un’autocertificazione così indecente da essere bocciata o che non la presenti proprio l’unica vera sanzione è il fatto che, per quel biennio, la persone in questione non riceverà gli scatti di anzianità. Per carità, avere uno scatto di anzianità fa comodo a tutti ma non è esattamente una punizione severa (soprattutto per i baroni universitari che di scatti di anzianità tipicamente ne hanno già avuti più che a sufficienza). Se ci aggiungete che a valutare sono gli stessi che vi hanno assunto quante saranno le probabilità che il figlio di papà di turno (messo lì tramite concorso truccato) venga bocciato dagli stessi che gli hanno dato la posizione che occupa?

Ma il punto veramente tragico di questa bozza non è tanto in quello che c’è, ma in quello che NON c’è. Infatti tutti gli articoli, buoni o cattivi che siano, si limitano a dare una verniciata alla superficie senza mai intaccare il cuore del problema: la meritocrazia e la responsabilità. Finché stipendi e fondi non saranno in alcun modo legati ai risultati nessuno avrà il benché minimo incentivo ad assumere gente brava invece che gente raccomandata e quindi non si farà mai vera selezione. Con queste leggi a chi conviene cacciar fuori a pedate il raccomandato di turno? Tanto poi, che questo produca risultati eclatanti o non combini nulla di buono, non cambierà nulla. Gli stipendi dei rettori e dei direttori dei dipartimenti non cambieranno di una virgola così come non cambieranno i finanziamenti dati alla ricerca a questo o a quel gruppo. Finché i singoli dipartimenti (non le intere università) non verranno valutati in maniera oggettiva per i risultati prodotti chi avrà vantaggio ad assumere un giovane e bravo ricercatore invece di quello il cui unico merito è aver fatto da assistente per anni al prof di turno (per quanto sopportare di fare l’assistente ad un barone non sia cosa da poco)?

Perché ci si ostina a derespoinsabilizzare tutti? Perché nessuno deve mai pagare per i propri errori? Perché non si adotta un sistema in stile anglosassone (o scandinavo) dove i posti vengono assegnati per chiamata diretta ma poi se chiami un carciofo ci sono ripercussioni negative sia sul tuo gruppo di ricerca che sul tuo dipartimento e, a cascata, sulla tua università? Insomma, in conclusione, perché non si introduce finalmente quella meritocrazia di cui tuti si riemipiono la bocca durante comizi e conferenze stampa?

(forse) ne abbiamo parlato qui:

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